PRIMA PARTE
Essere se stessi o non essere se stessi: questo è il problema!
Tutto ha inizio un po’ di tempo fa, osservando una situazione spiacevolmente ordinaria in un negozio.
Un cliente fa una richiesta impossibile a un’addetta vendite. Impossibile perché implica un’autorizzazione che la venditrice non ha.
La ragazza, a denti stretti, dice di no, poi tenta di spiegare perché no, ma il cliente è inamovibile e con voce ferma, sguardo diretto e indice puntato al viso della donna insiste nella sua richiesta.
La ragazza respira a lungo, riesce a stento a contenere la voce che le trema, mentre la salivazione va a zero, ma poi (si vede che ha fatto qualche corso di formazione!) tenta un sorriso, che però viene fuori falso e obbligatorio, e ribadisce un poco convincente <<no>>.
Il cliente la insulta.
Qui finisce l’ordinario e resta solo lo spiacevole.
La ragazza ci pensa un attimo, realizza e poi … reagisce. Fortunatamente solo a livello verbale: mentre il cliente esce dal negozio lei, malamente trattenuta da una sua collega e dalla store manager, insulta ad alta voce il cliente, estendendo le imprecazioni a diversi livelli di parentela del cliente stesso.
Poi scoppia in lacrime e piange, piange come una bambina.
La portano in magazzino, dietro la cassa, ma io origlio il dialogo dietro le quinte e …
La collega la consola spiegando che il cliente non ce l’aveva con lei, ma con l’azienda.
Lei però dice <<no, no … lui diceva a me, mica all’azienda!>>.
La store manager la rimprovera: <<devi controllarti, non puoi permetterti di essere spontanea e dire quello che pensi … qui c’è un modello …>>
Si chiude la porta e … non so come va a finire.
Un po’ di riflessioni mi si sono subito accodate in mente … Deformazione professionale.
In chiave tecnica lei non è l’azienda, rappresenta l’azienda, ma il cliente non ha sempre la raffinatezza di fare questa differenza.
E quando il venditore è bravo, affidabile e corretto, allora, che questa differenza non si noti è un vantaggio anche per l’azienda.
E cosa avrebbe dovuto fare?
Partiamo da 2 principi generali.
- Il cliente non ha sempre ragione
questa è una verità, ma è sempre il cliente, è quello che compra e da cui dipende il risultato, per cui va seguito, ascoltato, capito e gestito. - Chi insulta ha sempre torto
l’aggressore è il più debole, è quello che ha finito le munizioni di stile, non ha più risorse.
In un caso come quello osservato, il problema è di chi insulta, chi è insultato non dovrebbe offendersi, neanche di fronte a un insulto composito, articolato sia sul fronte personale che professionale.
Difficile, no?
La ragazza avrebbe potuto dire qualcosa di più o di meno, avrebbe potuto spiegarsi un po’ meglio, avrebbe potuto “sentire” più dispiacere per il problema del cliente, ma nel complesso ha fatto bene. Almeno fino alla reazione, che invece l’ha portata, ahimè, dalla parte del torto.
Ma la riflessione più profonda l’ha stimolata la store manager chiedendole più aderenza allo stile della casa e di essere meno spontanea, meno se stessa.
Ecco il paradosso “shakespeariano”: essere se stessi o non essere se stessi?
I modelli orientati alla customer experience richiedono un coinvolgimento emotivo forte, una capacità di “presenza” emotiva e di “saper sentire” il cliente, quindi di saper essere prima ancora che di saper fare o di sapere. Implicano la messa in gioco di dimensioni emotive che permettono alla relazione di svilupparsi con coinvolgimento e partecipazione. Tutti aspetti della “persona”, che i modelli fanno fatica a descrivere, trattenere e orientare.
Pensiamo all’accoglienza, o al sorriso di benvenuto.
Gli studi ci dicono che il giudizio di fiducia si esprime in 120 millisecondi, quindi conta la prima impressione.
Un’inversione dell’onere della prova con cui tutti i commerciali hanno a che fare.
Sono moltissime le aziende che tra modelli di servizio, regole o guide di comportamento, feedback e indicazioni manageriali insistono sull’importanza del saluto, del sorriso e del benvenuto.
Ma non sempre questo viene fatto. Allora giù con altra formazione, mistery shopping e circostanziati feedback di capi e colleghi.
Un partecipante a un corso, una volta, mi disse, <<i miei collaboratori DEVONO SORRIDERE sempre! Altrimenti IO li faccio piangere!>>.
E io mi immaginavo tanti Jocker al suo servizio che dispensavano buongiorno e buonasera a clienti disorientati.
Ma le persone davvero non sanno che quando entra un cliente è cosa buona, opportuna ed educata salutare? O non sanno come farlo? Oppure entrano in gioco altri fattori? Aspetti più personali, che in qualche modo sono collegati con l’indole, il carattere, la motivazione, la cultura, l’educazione, l’amor proprio, l’intelligenza, la passione …
Su questi fattori modalità classiche e standard di formazione e comunicazione non funzionano.
Qui fa la differenza proprio quella spontaneità, ovvero il proprio modo d’essere, la propria emozionalità, che in qualche modo la store manager della vicenda narrata (forse) censurava, o invitava a moderare.
In un negozio, in un’agenzia, nella hall di un hotel, l’indimenticabile esperienza di servizio è data da chi sa essere se stesso (emotività, spontaneità, self-storytelling, linguaggio ed esemplificazioni) dentro il modello aziendale (step, standard, stile).
I modelli servono (sono fondamentali!) per uniformare, guidare, evidenziare/gestire le lacune. Ma l’esperienza emotiva è cosa individuale e le “caratteristiche umane della persona” entrano necessariamente in gioco.
In termini formativi queste possono diventare il focus dello sviluppo e dell’allenamento attraverso un processo di consapevolezza e metodologie adeguate.
I modelli di servizio predicano comportamenti target, ma una formazione che li centralizza in modo esclusivo, rischia quell’interpretazione meccanica di chi non li sente suoi, che poi distrugge tutta la poesia (… sognata dal poeta-modellista). E nel medio-lungo il danno si vede su reputazione e risultati.
Ricordo che, studiando la best practice del Ritz Carlton, addirittura si parlava di “un sorriso sincero” per avere un’accoglienza e un servizio over standard.
E’ proprio qui il tema! “Ehi tu, sorridi sinceramente!” e come si fa?
C’è un unico modo possibile: sinceramente… sorridere. “Mostrare interesse verso il cliente”, altro predicato trasversale. Come si fa a evitare domande di circostanza, argomentazioni da reactance e soliloqui commerciali? Anche qui, una sola possibilità: essendo veramente interessati.
In termini formativi occorre lavorare sulle condizioni per cui quel sorriso (e come con il sorriso, il saluto, la presenza, la disponibilità, l’interesse …) sia “sinceramente sincero” e il consulente/venditore sia “veramente interessato”.
Questa riflessione portata in un lungo e divertente brainstorming, ci ha spinti verso un’interessante prospettiva per la formazione su queste tematiche, sviluppando un approccio che abbiamo chiamato selling agility.
Oggi abbiamo già sperimentato i format sulla selling agility con alcuni nostri clienti particolarmente attenti al tema della relazione commerciale e ne monitoriamo (per ora soddisfatti) gli effetti.
Nella seconda parte ne vedremo le componenti…
FINE PRIMA PARTE
Il prossimo intervento sarà pubblicato tra 2 settimane. Scrivici pure per un confronto e per ricevere la news in anteprima.
(Riproduzione vietata)
Silvio Malanga
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